Aerin

di Francesca Fretti

Ogni volta, quando la incrocio nei corridoi dell’università o la seguo al bar, cerco d’indovinare dal suo viso se quella è stata o no una buona giornata. Dai suoi occhi voglio capire se è triste o felice, se si sente sola o se si è accorta che io esisto.
Entro nel bar e supero il tavolo dove lei è seduta, passandole accanto non posso trattenermi, la guardo, forse lei con la coda dell’occhio mi vede. Mi siedo al tavolino in fondo, bevo qualcosa, fingo di studiare. Mi distraggo un secondo e lei sparisce lasciandosi dietro solo una tazza di tè vuota, senza macchie di rossetto.
Le vorrei parlare ma non faccio nulla perché ho paura. Lei mi fa paura, è troppo sola.
Non frequenta nessuno, scambia poche parole con chi le sta intorno. Sembra apparire dal nulla nei corridoi o materializzarsi in classe quando c’è una domanda a cui nessuno sa rispondere, è bellissima e lontana, irraggiungibile.
Seguiamo lo stesso corso di filosofia. Lei è nuova della zona e nessuno la conosce. Io l’ho notata subito e ho avuto un brivido, come ipnotizzato non riuscivo a toglierle lo sguardo di dosso.
Ho imparato a nascondere la mia ossessione per lei, mi sono accontentato di guardarla, a volte seguirla, spesso dipingerla e baciarla solo nei miei sogni.
La notte, quando non posso dormire, sto sdraiato sul mio letto e ripeto il suo nome all’infinito. Vorrei solo sussurrarglielo all’orecchio. Aerin. Nessuna parola ha un suono più dolce.

Illustrazione di Ares Fretti

Oggi in classe lei non c’è, cerco di concentrarmi sulla lezione di filosofia dell’800 e prendo appunti come un pazzo.
Quando la rivedo, lei viene verso di me, mi ferma. “Posso chiederti un favore?” Annuisco, è tutto quello che riesco a fare. “Mi hanno detto che sei l’unico che ha preso appunti su Schopenhauer, me li puoi prestare?”
“Se vuoi te li porto stasera.”
Lei protesta, dice che non è il caso, insisto, sorrido, tremo, mi guarda, dice sì.
Mi spiega dove vive, ma io già lo so e mi perdo nella sua voce.

Aerin mi chiede se voglio un tè e io accetto. Parliamo giusto un po’, del più e del meno. Io che ancora vivo coi miei, lei sola da anni.
“Non stai mai con nessuno, nessuno ti conosce. Non ti senti sola?”
Lei mi guarda senza guardarmi e risponde “Oh sì… ma la solitudine è un’amante gelosa”.
Ci sediamo vicini sul divano. Mi manca il respiro.
Le spiego Schopenhauer meglio che posso. Lei ascolta e annuisce.
Non dico più niente perché mi gira la testa. Non so resistere, allungo una mano per accarezzarle i capelli. Mi sembra che lei trattenga il respiro. Lentamente pronuncio il suo nome: “Aerin…”
Una lacrima scivola sulla sua guancia e io mi spavento. Le vorrei chiedere perché piange ma sono come sotto un incantesimo e non riesco a parlare. Aerin è così triste, chiude gli occhi e trema forte. L’abbraccio e lei mi stringe. Il contatto con la sua pelle mi stordisce, non vorrei lasciarla più. All’improvviso lei si stacca, si asciuga il viso, si alza in piedi.
“Forse è meglio che tu vada. Grazie per Schopenhauer.”
Non mi guarda, poi alza gli occhi. Io non capisco niente.
Mi accompagna alla porta, mi guarda, non mi guarda, sorride, forse no.
Le prendo il viso tra le mani e le piego piano la testa di lato per poterle baciare il collo. Mi lascia fare.
Ci guardiamo, ridiamo piano, ci baciamo. Mi sento euforico, anche se negli occhi di Aerin vedo un’ombra, un’oscurità che non la lascia mai. Sul suo volto è come se ci fosse un velo che non mi permette di vederla sorridere veramente.
Ripenso a Schopenhauer e al velo di Maya, il velo che avvolge la realtà e la fa apparire come noi la vediamo e non come realmente è, il velo che bisogna strappare annullando tutte quelle pulsioni che ci spingono ad agire, a desiderare e a vivere così in uno stato di tensione dolorosa. Io non posso smettere di desiderare Aerin e così non posso nemmeno conoscerla per quello che realmente è. Ma se il filosofo ha ragione e la vita è un sogno, non voglio svegliarmi proprio ora.

Tornati a sedere vicini, la guardo senza quasi respirare, lei si fa seria. Mi appoggia una mano sugli occhi e mi dice di non guardarla. Poi la sua mano sale ad accarezzarmi i capelli. Di nuovo la guardo, lei mi abbraccia e mi dice più forte di non guardarla. Le bacio il collo sottile tenendola stretta, lei mi accarezza la schiena sotto la camicia. Il nostro respirare diventa affannoso, le lascio grossi lividi sul collo mentre lei mi graffia la schiena.

Usciamo, io le prendo la mano, anche se non la guardo so che sorride. Aerin sorride, ma non veramente.
Notte fonda, andiamo al mare.
Lei si toglie le scarpe. Mi sembra felice e disperata allo stesso tempo. Aerin si ferma di fronte a me, il vento le gonfia i capelli, si morde le labbra guardandomi con la testa piegata da un lato. Non riesco a capire cosa pensa e così glielo chiedo. Lei non risponde, si toglie anche la giacca. Il cielo è coperto di nuvole ma, da uno squarcio, la luna sta a guardare Aerin che si spoglia e rabbrividendo aspetta che io reagisca e mi tolga a mia volta i vestiti.
La luce lunare scivola sui lividi dei miei baci sul collo di Aerin e sui segni delle sue unghie sulla mia schiena, sui nostri corpi sulla sabbia. La luna ascolta i respiri, i battiti dei cuori, e si specchia nelle mie lacrime quando bisbiglio il suo nome.
Aerin. Aerin. Aerin…

Stiamo seduti sulla sabbia fredda e ascoltiamo il mare. Lei si alza, fa qualche passo verso la riva, non si è ancora messa le scarpe.
Entra in acqua fino al ginocchio. Si gira, guarda il mio viso stupito, scoppia a ridere. Un’onda ruba la sua risata prima che mi raggiunga. Aerin sembra sciogliersi nell’acqua. Ho paura si dissolva all’improvviso. Mi alzo, corro da lei, l’afferro per un braccio, la riporto sulla spiaggia. Lei sembra triste, mi guarda come se io non riuscissi a capirla. Poi sorride, ma non veramente.

Aerin mi saluta con un bacio, chiude la porta.
Io me ne vado in silenzio, camminando su asfalto ovattato. Aerin ora mi pare un essere di un altro luogo, capitata qui per caso o per sbaglio. Lei è più leggera, si muove lentamente, l’aria intorno al suo corpo è densa, ogni suo gesto le dà forma. Ora che le sono stato così vicino è come se questa densità mi seguisse, ma io non ho la sua leggerezza e fatico a camminare fino a casa.
Passo il resto della notte sveglio, a guardare il soffitto sorridendo. Penso ancora a Schopenhauer, la sua teoria della vita come pendolo che oscilla tra dolore, piacere, noia e quindi nuovamente dolore, non sembra applicabile ad Aerin. Il dolore è il desiderio, la tensione provocata dal desiderare qualcosa. Il piacere è il momento in cui si ottiene ciò che si desidera. Poi l’oggetto dei desideri viene a noia e tutto inizia da capo.
Per quanto io possa sentire Aerin o averla vicina, lei non mi appartiene.
Niente noia per me.

A lezione mi addormento. Quando esco trovo Aerin che mi aspetta. Lei sorride nel suo modo strano e io non posso fare a meno di abbracciarla per convincermi che sia davvero qui.
“Voglio mostrarti qualcosa” le dico.
Andiamo a casa mia. Saliamo le scale. Entriamo nella mia stanza.
Lei lascia cadere i libri per terra e si scioglie i capelli. Io la guardo, la osservo quasi come se lei in verità non fosse lì, e forse è così. Sorrido. Aerin aspetta in silenzio che io faccia o dica qualcosa, anche se per lei non è così importante.
Apro la mia cartelletta dei disegni e tiro fuori i mille ritratti che le ho fatto. Guardo il suo viso e capisco che ha di nuovo paura.
“Sono io?” mi chiede.
“Tu attraverso i miei occhi” rispondo.
Aerin lascia cadere i disegni e mi copre gli occhi con una mano. Quando parla la sua voce è un po’ roca: “Vorrei che tutto questo fosse vero…”
Io sto zitto, assaporando il calore della sua mano sul mio viso.

Sento un rumore sulle scale.
Mia madre entra senza bussare e mi chiede cosa sto facendo seduto sul letto, solo, a occhi chiusi.
“Sognavo” le rispondo.
“Chi è quella ragazza?” dice indicando i miei disegni sparsi sul pavimento.
“Nulla. Il mio sogno. Nulla…”