Ossimoro Sorridente - Capitolo 3 - Fanìa

Il volto di Cosimo Pappagallo era livido come pietra, non la pietra nera e santa della sua terra, ma quella grigia dell’isola dove si nascondeva il suo nemico. Si era chiuso nella sua stanza e seduto sul letto si torceva le mani, come se le stesse stringendo al collo dell’uomo che odiava. Nel petto qualcosa cresceva, prendeva spazio dentro di lui, uno sconfinato desiderio di vendetta verso chi gli aveva tolto tutto, un peso nero che lo schiacciava.
Il giorno cresceva, e l’afa s’infilava strisciante nelle fessure delle imposte chiuse. Consumava tutto l’ossigeno della stanza, rendendo l’aria densa e ostile all’inspirazione. La camicia bianca di Cosimo Pappagallo era madida di sudore, e grosse gocce rotolavano giù dalla sua fronte bassa. Si mischiavano alle lacrime rabbiose e alla bava che sfuggiva da un angolo della bocca piegata in una smorfia sofferente. Tutti quei liquidi persi non lo avrebbero aiutato a calmarsi. Il suo corpo diventava sempre più caldo e secco, la rabbia lo prosciugava.

Oltre la porta chiusa sentiva sua moglie e sua madre piangere e strillare, in preda al dolore e alla vergogna. Molte vicine si erano unite a loro, a tratti anche loro strillavano, mentre fuori di casa si erano radunati gli uomini. Tutto il paese condivideva il loro dolore, mentre la paura si faceva largo in ogni cuore.
Cosimo Pappagallo aveva un’unica figlia, e adesso era morta. Anche se la sapeva chiusa in cantina che singhiozzava, per lui era già morta. Solo la vendetta contava ora. Doveva pensare alla terra, e soprattutto al paese, Petrasanta.

Rimase chiuso nella stanza fino a sera, a torcersi le mani e tremare di rabbia. Se fosse uscito, il furore generato dalla vergogna e dal senso di fallimento che gli scoppiava in petto, l’avrebbe probabilmente deflagrato, avrebbe colpito tutto e tutti. Non avrebbe mai più ripreso il controllo.
Cercò di concentrarsi sul fatto che, anche se era lui il responsabile, l’unico garante, c’erano altre persone coinvolte, alcune molto più sagge di lui. Ci doveva essere un modo di rimediare e qualcuno doveva conoscerlo.

Solo quando fu notte e i pianti si furono tutti quietati, si alzò dal letto e uscì. Il salotto era buio ma era certo che sua madre fosse lì, sveglia. Infatti la trovò sul divano, teneva in grembo la testa di sua moglie Sabedda che dormiva stremata.
«Madre…»
«Siediti figlio, e taci» ordinò lei, Donna Liboria Pappagallo. E Cosimo obbedì.
«Quello che è successo è una grandissima sciagura, una malasorte per tutti noi. Eri tu il custode di tua figlia, e fallendo il tuo compito hai disonorato la nostra famiglia e messo a rischio la sopravvivenza del paese. È venuto un messaggero prima, mentre te ne stavi chiuso di là a digrignare i denti come un cagnetto rabbioso. La Vecchia sarà qui all’alba, di persona, e ti vuole parlare. Fatti trovare pronto.»

All’alba Cosimo Pappagallo era in piedi fuori dalla porta di casa, pulito e rasato, vestito di tutto punto col completo nero, e nera era anche la sua faccia. Socchiuse gli occhi alla luce nascente, il primo raggio di sole spuntato già scottava. In fondo alla strada comparve una figura anch’essa nera, che avanzava spedita appoggiandosi a un bastone nodoso.
Quando la Vecchia lo raggiunse gli disse: «Cammina figlio, andiamo alla rocca» e lo superò senza fermarsi. Cosimo Pappagallo la seguì tenendosi indietro di qualche passo.
La Vecchia era a piedi nudi, camminava veloce e senza esitazioni, come se di scarpe non ne avesse portate mai. Salì il sentiero ripido per la rocca, e Cosimo Pappagallo dietro, fino alla cima.
La Vecchia si sedette su di una pietra, l’uomo esitò fino ad un gesto d’invito, poi la imitò.

«Conosci le leggende di questa terra, figlio?»
Cosimo non osò rispondere.
«Addio, Signore del Mondo di Sotto, un giorno vide una fanciulla che coglieva fiori in un prato, era vestita di bianco e il sole si rifletteva nei suoi capelli, danzava circondata da farfalle. La trovò così viva e così bella che la volle per sé. Ordinò alla terra di aprirsi, cosicché lui poté sporgersi da sotto e afferrare la giovane. La ragazza urlò, con il solo effetto di lasciarsi dietro l’eco del suo urlo, che ancora oggi a volte risuona tra gli arbusti della pianura.
La fanciulla si chiamava Floricanto, era la figlia di Demadra, Signora della Terra, che in quel momento si trovava su una rocca di pietra — questa rocca di pietra — e assistette impotente al rapimento della figlia. Straziata dal dolore, Demadra fece di tutto per far tornare la figlia a sé, ma ciò che raggiunge il Mondo di Sotto difficilmente torna di sopra.
Tutti gli dèi tentarono di convincere Addio a restituire la fanciulla alla madre. Alla fine lui sembrò acconsentire, ma con l’inganno fece sì che lei dovesse sempre tornare da lui.
Si disse disposto a lasciarla andare, se prima avessero condiviso un frutto. Lei, forse per ricambiare la gentilezza con cui era stata trattata nell’Ombra, o per paura del suo terribile sorriso, acconsentì. Sedettero insieme sul grande giaciglio della notte, circondati da schiere di creature crepuscolari a cantare per loro con voci ipnotiche in un tremulo sussurro. Sgranarono, un chicco dopo l’altro, un piccolo melograno maturo, imboccandosi a vicenda, e il frutto era così dolce che la fanciulla se ne ubriacò. Quando ebbero finito si guardarono e lei seppe di appartenergli. Spaventata da quella consapevolezza che ora la riscaldava nel gelo del Mondo di Sotto, si alzò e se ne andò veloce.
Appena tornata in superficie, piangendo di gioia tra le braccia della madre ritrovata, cominciò a sentire una vaga nostalgia di quel mondo oscuro che aveva appena lasciato. Un sentimento la legava ad Addio, e un’attrazione la voleva di nuovo laggiù.»

La Vecchia sospirò. Per un momento il suo sguardo si perse nell’ampiezza del paesaggio, come a cercare traccia della fanciulla rapita. Non trovandone segno continuò.

«Floricanto rimase con la madre finché poté, e la terra fu generosa di frutti. Demadra si comportava come se niente fosse successo, non voleva nemmeno parlare di quello che sua figlia aveva passato nel buio. Per non ferire la madre, la giovane faceva finta di niente, come se nulla in lei fosse cambiato, come se l’Ombra non l’avesse toccata. Un giorno però non resistette più e tornò da lui. La gente dell’isola si dovette affrettare al raccolto, prima che le piante si seccassero, gli alberi si trasformassero in scheletri scuri e la nebbia di mare ricoprisse i campi. Quando la ragazza percepiva che la tristezza della madre diventava troppo grande risaliva da lei, ogni volta con più difficoltà, fino a che la sua nostalgia non la costringeva a tornare giù, dall’amato. Nacquero così le stagioni e si perpetuarono fino al giorno in cui qualcosa mutò oltre e la fanciulla non volle più tornare in superficie. Il legame con il Mondo di Sotto era diventato troppo forte, vi aveva riconosciuto qualcosa di suo e ne era ormai diventata la Signora. La giovane s’indispettiva che sua madre non lo capisse, che la guardasse sempre come lo stesso fiore sul punto di sbocciare, e decise di non risalire più in superficie. Demadra però l’aspettava, e la tristezza cresceva, finché un giorno si piegò su sé stessa e la terra divenne arida di nuovo.»

La voce della Vecchia si era fatta roca, per la prima volta quella mattina parve affaticata e molto, molto vecchia. Ma continuò il racconto.
«Il Consiglio dei Villaggi si riunì preoccupato per le sorti dell’isola. Molte suppliche furono inviate alla giovane chiedendole di tornare dalla madre, ma lei non ne volle sapere, era diventata Signora dell’Ombra, aveva ricevuto un nuovo nome e non sarebbe tornata. Era cambiata. Si chiamava Melagrama.
La gente aveva fame e il Consiglio decise di fare una proposta alla Signora della Terra. Le avrebbero dato loro una nuova figlia, ogni famiglia a turno le avrebbe dato la primogenita, per tutte le generazioni a venire. La fanciulla avrebbe danzato per la dea, l’avrebbe consolata cantando e le avrebbe tenuto compagnia. Fin da bambina, ogni giorno sarebbe rimasta nei campi. Demadra, disperata nella sua solitudine, accettò a condizione che una famiglia si prendesse la responsabilità di divenire custode del patto. La tua famiglia, Cosimo, si prese questa responsabilità, e proprio tu non sei stato vigile!»
La Vecchia lo penetrò con uno sguardo nero e furente, ma vedendolo disperato e sofferente, con le mani sulla testa, la sua espressione si rabbonì un poco. Era abbastanza vecchia per considerare tutti come bambini, anche quell’uomo coriaceo, che si avviava verso il tramonto della sua esistenza, le pareva solo un giovinetto alle prese con qualcosa di molto più grande di lui.
Cosimo teneva la testa china, biascicando delle scuse. Nella rabbia che l’aveva accecato si fece largo la confusione. Com’era possibile che non avesse visto il disastro arrivare insieme a quel giovane uomo che aveva invitato a entrare nella sua casa? Con quale potere aveva sedotto sua figlia distogliendola dalla sua semplice e forte devozione alla Signora della Terra? Non lo capiva. Improvviso lo colse il pensiero che ci fossero delle forze arcane all’opera contro di lui, forze che né lui né la Vecchia potevano comprendere. Provò a dire qualcosa, ma non ci riuscì, aveva come la bocca tappata.

La Vecchia sospirò di nuovo e riprese a parlare: «Addio, il Signore del Mondo di Sotto, con il suo inganno si trova da allora a essere in debito con la Signora della Terra, e noi, che siamo a lei devoti e da lei protetti, ora possiamo pretendere che lui infine la ripaghi. Proponendogli un nuovo patto ci faremo perdonare da lei e daremo a lui occasione di redimersi.»
La Vecchia si girò a guardare Cosimo Pappagallo e continuò: «Tua figlia appartiene a Demadra e sarebbe stata sua se fosse ancora pura… ma ora, che è gravida, cosa vuoi se ne faccia lei che vuole una figlia fanciulla? Sai dunque chi è stato?»
«Conosco il suo viso e conosco il suo nome, un uomo di passaggio verso il porto a nord, diretto verso la Sguizza.»
«Bene, abbiamo ciò che serve. Questo affronto deve essere punito, sei disposto a sacrificare tutto il necessario per riparare alle tue mancanze?»
«Sono disposto a tutto.» Il suo volto era duro e scuro come basalto. Cosimo Pappagallo sentiva tutto il peso dell’essere custode di quel patto, custode di sua figlia, della sua famiglia, del suo paese e dell’isola tutta… quell’uomo terribile e sconsiderato avrebbe pagato. Poco importava se anche lui era natìo dell’isola, aveva disprezzato le sue stesse tradizioni, e la tradizione era tutto.
«L’uomo si chiama Fosco Gargarozzo.»
La Vecchia assaporò quel nome sulla punta della lingua, lo fece passare sul palato, lo strinse un attimo tra i denti e poi lo risputò.
«Fosco Gargarozzo» sibilò a occhi chiusi.
Cosimo la guardava, impaziente di sapere cosa sarebbe successo.
«Fra tre giorni la luna sarà buia. Porta qui tua figlia quando sarà notte. Solo voi due. Non ne parlare con nessuno, se ti faranno domande quelli del paese dì solo che tu sei il custode e farai ciò che è necessario. Nessuno deve più preoccuparsi. La terra sarà salva.» Finito che ebbe di parlare la Vecchia si appoggiò al suo bastone, si alzò e se ne andò spedita, facendo piccoli salti da una roccia all’altra sui piedi nudi.

Donna Liboria Pappagallo, prese una brocca d’acqua fresca, del pane appena sfornato, caffè, zucchero, latte caldo, mise tutto su un vassoio e scese in cantina. Aprì il pesante chiavistello e fece altri tre scalini.
In un angolo, rannicchiata, in silenzio, c’era Epifanìa, la sua nipote preferita, perché pur essendo una creatura semplice, era lei quella speciale. La ragazza, che tutti chiamavano Fanìa, non era propriamente bella, il corpo un po’ tozzo e i lineamenti del viso forti e marcati, ma aveva occhi grandi da uccello notturno, un ampio sorriso sincero e profumava sempre di fiori di campo. Non si era neanche mostrata molto intelligente fino ad allora, né di carattere forte, imparava quello che le veniva insegnato senza porsi domande, aveva un animo gentile. Accettava il suo destino bonariamente, pareva. Non le pesava compiere i suoi doveri, soprattutto amava dialogare con i campi fioriti e tenere compagnia a Demadra col suo chiacchiericcio. Non era mai stata curiosa di niente, prima di incontrare quell’uomo, pensava Donna Liboria, e si chiedeva cosa realmente le si muovesse dentro.

«Vieni bambina, mangia qualcosa» disse la nonna. Fanìa obbediente si avvicinò, il viso sconvolto dai giorni di pianto.
«Sei solo una bambina,» disse la donna anziana, «non lo sai che disastro hai combinato!» e le versò una tazza di caffè. Lo fece dolce e con tanto latte.
Fanìa prese la tazza con entrambe le mani e bevve, avidamente, a piccoli sorsi veloci. Smise di bere, tenendo la tazza davanti al viso e sovrastandola con gli occhi sgranati. Poi disse: «Quando lui è entrato dalla porta non era solo… nessuno l’ha vista tranne me!»
«Di cosa stai parlando? Chi hai visto?» domandò stupita la donna.
«La farfalla! La farfalla bianca e nera! Volava intorno alla sua testa, poi è venuta da me. Mi ha parlato, ha detto il mio nome, ma in modo diverso. Poi è tornata da lui, gli si è posata sulla spalla e non se n’è andata più.»
Rivolse lo sguardo verso Donna Liboria: «Tu non l’hai vista nonna? Gli dèi non vengono, a volte, sotto forma di animale? Mi sono detta che doveva essere opera della Signora, il bisbiglio della farfalla ha cambiato tutto, niente mi appariva come prima. L’unica cosa che mi restava familiare era quello sconosciuto. Mentre passeggiavamo insieme quel pomeriggio, lui mi ha chiamata in quel modo strano, come solo la farfalla aveva fatto prima: Fanny. Di punto in bianco mi sono arrivate nella testa domande che non mi ero mai fatta. Sono viva? Posso decidere io della mia vita? O sto solo impersonando un ruolo, seguendo un copione che mi è stato assegnato? Mi è bastato sentire il mio nome pronunciato in quel modo nuovo, come mai era stato detto prima, per far sì che mi chiedessi se esisto realmente, ed essere disposta a rischiare ogni cosa per scoprirlo. È quello che è successo: l’ho portato nei campi e mi sono data a lui… Il prato era pieno di fiori e farfalle!»

«Sciocca ragazza!» disse Donna Liboria pensando che la nipote stesse delirando. C’era anche Sabedda che sragionava dal dolore e doveva tornare a occuparsene. Così le parlò: «Ora ascoltami, Fanìa! Tuo padre verrà a prenderti presto. Dovrai seguirlo ubbidiente e fare tutto ciò che ti verrà chiesto. Non c’è nessun’altra possibilità. Tu e tuo padre rimedierete a questa sciagura, quale che sia il prezzo che dovrete pagare. Solo così l’isola si salverà. Siamo d’accordo?» la donna guardava la nipote con gli occhi pieni di lacrime, tenendole stretta la mano.
«Sì, nonna. Sono pronta» rispose la ragazza. Sorrise debolmente. «Dovevano essere falene, alcune di loro volano anche di giorno. Gli dèi giocano con noi giochi crudeli, sono felice di lasciare la partita» disse con inaspettata lucidità e si ritirò a rannicchiarsi nell’angolo, bisbigliando a sé stessa di farfalle e falene. Donna Liboria scosse la testa tristemente e se ne andò.

Fanìa passò le ultime ore di prigionia abbracciando la sua pancia che cominciava ad arrotondarsi, cantilenando una ninnananna che inventava sul momento. Non aveva mai pensato di diventare madre, sapeva di essere destinata ad altro. Ora sentiva la vita crescerle dentro e intendeva godere di quella presenza fino all’ultimo istante. Si nascondeva nel ricordo di quell’incontro che aveva cambiato tutto, si avvolgeva nel suono di quella voce che ancora la chiamava: «Fanny». Quel suo nome le evocava una vita lontana, cittadina, piena di teatri e concerti, vestiti da sera e passeggiate notturne sotto una pioggia leggera, a braccetto di un uomo alto ed elegante che l’avrebbe guidata e protetta. Una minuscola creatura tra le braccia, una bambina che si nutriva serena al suo seno mentre lo straniero affascinante le abbracciava entrambe con amore. Visse tutta una vita con loro, nei suoi sogni, in quelle ore al buio della cantina.

Arrivò la sera di luna nera e fu il momento di svegliarsi. Cosimo Pappagallo aprì la porta della cantina, si avvicinò alla figlia e l’aiutò ad alzarsi. Non si erano più parlati da quando la tragedia si era scatenata, e anche adesso non le avrebbe rivolto la parola. Si augurò che lei facesse altrettanto o l’avrebbe schiaffeggiata. La guardò negli occhi e li vide sereni e decisi, con scuri cerchi neri intorno. Salendo le scale la giovane si teneva una mano sul ventre. Lui le mise sulle spalle e sulla testa una coperta scura e la guidò nella notte.
Fanìa percepiva presenze immobili e silenziose ai lati della strada, ma non sapeva se erano persone o fantasmi. A ogni incrocio e crocicchio, per ogni famiglia firmataria del patto con Demadra, un rappresentante coperto da un mantello con cappuccio scrutava il cammino cieco della ragazza. Epifanìa avanzava sostenuta da Cosimo, senza parlare, in uno stato che era a metà tra rassegnato terrore e fiera ribellione. Non era pentita, aveva l’irrazionale certezza di aver commesso lo sbaglio giusto, e per quanto orribili sarebbero state le conseguenze, il suo folle gesto l’aveva liberata da una vita in cui non avrebbe avuto modo di scoprire sé stessa, chi sarebbe diventata.

Raggiunsero la rocca dove la Vecchia li attendeva, vicino a un fuoco.
Fanìa fu gettata a terra, il padre le rimase alle spalle, entrambi di fronte alla Vecchia, divisi dalle fiamme. La Vecchia, con voce ruvida come pietra, cominciò a intonare canti per il Signore dell’Ombra:

«Patrni labrintius niuriat
dumun isut u mun
taliccanuat
cualusci duscu
cunnuscisci
ndomez uscant
sarvani sarvanisci.
Labballu dilummira ocur
dumun isut u mun
scutanisc
cuavuc dugiel
sciamanisc
dutraversu ascurdan
sarvani sarvanisci.»

L’aria parve addensarsi fino a che un turbinìo di vento la stracciò. Tutti e tre dovettero coprirsi il capo con le braccia per proteggersi da uno sciame di grossi insetti. Ali polverose li colpivano ovunque. Fanìa urlò, poi tacque. Regnarono calma e silenzio su ogni cosa.
Il fuoco, che pareva essersi spento in quel turbine, bruciava di nuovo con energia. Cosimo e la Vecchia alzarono lo sguardo, il cielo era terso e niente volava. Un’innaturale assenza di suoni pervadeva la notte.

Fanìa giaceva supina a terra, la schiena inarcata innaturalmente e il collo piegato in modo che guardasse il cielo dietro di lei, gambe, braccia e dita erano contratte, gli occhi spalancati si muovevano rapidamente in ogni direzione, allucinati. La bocca era piena di una densa schiuma nera.
«Ora!» sibilò la Vecchia. Senza fermarsi a pensare, Cosimo prese il coltello e aprì il ventre di sua figlia. Uno sciame di grosse falene ne volò fuori in ogni direzione e si disperse nel cielo stellato.

Sabedda si svegliò di soprassalto. Era accovacciata sul divano, la testa in grembo a Donna Liboria che dormiva russando leggermente. Un terrore devastante le strinse il petto, corse verso la cantina. Trovando la porta aperta rimase di sasso. Il cuore le batteva all’impazzata, per un attimo dovette impedirsi di pensare o si sarebbe spezzata. Cercò di riprendere il controllo di sé, appena ci riuscì si gettò sulle spalle uno scialle nero e uscì nella notte.
Corse più forte che poté lungo le strade deserte e raggiunse la rocca che era senza fiato. Non si fermò, scalò arrancando sulle pietre. In cima ciò che vide la fece crollare in ginocchio. Avrebbe voluto urlare ma la sua voce se n’era andata per sempre, insieme a sua figlia. Figure incappucciate presto la raggiunsero e, sostenendola, la portarono a casa.

Poco dopo nacque un demone.
All’inizio fu solo una scintilla, giù nella pancia del vulcano. Poi come se da una pozza di lava qualcosa sorgesse. Prima furono solo piccole bolle, poi una grande. Una sagoma prese forma nel magma, qualcosa dal basso veniva spinto su. Salendo assumeva una forma umana. La lava si modellò dapprima grezzamente, poi nei più piccoli dettagli, fino a sembrare la scultura incandescente di un uomo. Di scatto si mise a camminare veloce sul lago di fuoco, arrivò a una parete di roccia e vi si arrampicò come un ragno. Salendo ancora verso la bocca del vulcano, il corpo di lava si solidificava, ma invece di diventare roccia, diventava carne.

Il piccolo Malachia amava aggirarsi sul vulcano al sorgere del sole, prima di andare a scuola. Era a spasso sulla cima quella mattina, vicino al cratere tanto quanto il buonsenso di un ragazzo di undici anni gli consentiva. Ci rimase di stucco quando dal barlume rossastro vide uscire un uomo in completo gessato con un papavero scarlatto all’occhiello.
Era agile e impeccabile, non aveva una sola bruciatura, né una macchia di fuliggine, le righe dell’abito erano bianchissime.
Scendeva giù dritto, dal monte, senza seguire il sentiero serpeggiante, ma tagliando in linea retta, scavalcando, saltando o travolgendo i massi e gli arbusti che si trovava davanti.
Malachia esterrefatto lo guardò fino a che si confuse con lo scuro della roccia e delle ultime ombre della notte. Si rese conto che era quasi ora di colazione e corse a casa. Spalancò la porta e si precipitò in cucina.
«Mamma!» urlò. «Ho visto un uomo uscire dal vulcano!»
La madre lo guardò storto e lo rimproverò: «Quante volte te lo devo dire che non ci devi andare lassù?»
Il bambino insistette ignorandola: «Sì, ma quello è uscito dal vulcano ed era tutto pulito ed elegante! Come può essere?»
«Sta zitto e mangia» replicò lei, mettendogli davanti un caffellatte bollente e pane profumato. «Dev’essere uno che è venuto ad aiutare. Non farci caso se vedi cose che ti paiono strane di questi tempi. Rimetterà ordine dove ora c’è caos.»
Malachia aveva fame e si mise a mangiare, ma mentre correva a scuola si ripromise di saperne di più.

Il sole appena sorto bruciava.
La terra in cima alla rocca era imbevuta di sangue, nel mezzo della pozza nera c’era un corpo di donna. Cosimo vicino al cadavere, i piedi nudi immersi nel sangue, un lungo coltello ancora in mano, lo sguardo sbarrato sul vuoto. Alle sue spalle il fuoco ardeva ancora.
Intanto l’uomo col completo gessato raggiunse il luogo in cui era atteso.
Annusò l’aria e girò la testa di scatto a guardare la Vecchia e la grossa ciotola di pietra nera che teneva stretta mentre mormorava preghiere e maledizioni di fronte alle fiamme.
La Vecchia si alzò con la ciotola in mano e si avvicinò con cautela al nuovo arrivato. Provava un reverente e giustificato timore di fronte alla creatura.
«Permettimi, demone…» gli disse. Il demone con le mani si aprì un varco nel petto, una caverna di lava che andava solidificandosi, in cui la Vecchia infilò il cuore di Fanìa, ritraendo velocemente la mano. L’essere richiuse il suo torace, imprigionando per sempre il cuore della giovane donna al suo interno.
Porgendogli la ciotola la Vecchia s’inchinò e disse: «Il tuo pasto, demone!»
Il demone sorrise, e sorrise, e le sue fauci erano enormi quando si chiusero sul banchetto, provocando scrocchi secchi di piccole ossa e densi sgocciolamenti. Dalle sue labbra grondava sangue.
Lentamente sfilò il papavero che portava all’occhiello e lo consegnò alla Vecchia per suggellare il loro patto.

La Madre sarebbe stata vendicata e la terra era salva.
Cosimo guardava il cadavere pietrificato di terrore. Gli eventi di quella notte lo stavano portando alla follia, si sentiva vacillare. Ma ora che tutto si era compiuto, l’unica cosa che doveva fare era riprendere il controllo della sua vita. Si riscosse, scavalcò il cadavere di sua figlia senza guardarlo e si avvicinò all’essere in gessato e col mento sporco di sangue. Piegò a terra un ginocchio e disse: «Ti ringrazio di essere venuto, mio Signore» e gli offrì in dono il coltello dal manico nero che aveva appena usato per il sacrificio.

Solo dopo il pasto, il demone cominciò ad avere pensieri propri. Prima era un golem infuocato tramutatosi in carne che aveva preso la forma di un giovane affascinante e bizzarro, con un papavero all’occhiello.
Quando mangiò, l’entità daimonica di tipo Oxymoros, conosciuta con il nome di Nagababa, fu risucchiata dentro a quell’involucro di lava solidificata, prendendone agilmente possesso e acquisendo l’attributo di Thanatos. Ora quello era il suo corpo. Incarnava dolore, tristezza, pazzia e, soprattutto, morte. Ora conosceva il gusto di quel sangue che doveva cercare, ne conosceva l’odore. Conosceva tutto quello che era successo, dalla notte dei tempi, la concatenazione di eventi che aveva portato alla sua incarnazione gli era nota e chiara, così come lo erano i suoi compiti.
Gli avevano offerto uno spuntino delizioso, appena in grado di stuzzicargli l’appetito. Ma la fame era la condizione migliore per la caccia e partì subito.
Si mise a correre verso nord e quando arrivò al mare non si fermò, continuò a correre, facendo ampi balzi tra i cavalloni, senza mai affondare. Continuò a correre quando il mare si fece calmo, poi completamente piatto intorno alla Sguizza. Toccò terra in un’insenatura solitaria e si fermò, annusò l’aria. Trovata la traccia, si sfilò un nuovo papavero da sotto la lingua, lo sistemò all’occhiello e andò in città con tutta calma.

La terra di Sciculla non smise di dare i suoi frutti e nessuno ebbe a preoccuparsi di avere fame.
Il giovane Malachia, dopo quello che aveva visto sul cratere, rimase all’erta, pronto a cogliere discorsi sussurrati e occhiate cariche di significato tra gli adulti del paese.
Descrisse minuziosamente l’apparizione dell’uomo sul vulcano in un quaderno rosso, su cui aveva scritto il titolo <em>Strane Cose</em>, e cominciò ad annotarvi ogni evento insolito e informazione che riusciva a estorcere, o che rubava nascosto ad ascoltare. Prendeva nota di tutti i moti naturali, migrazioni di farfalle, forme degli sbuffi di fumo del vulcano.
Uno dei fatti su cui maggiormente s’interrogava era la sparizione di sua cugina Fanìa.
Era sempre andato d’accordo con la ragazza, gli piacevano molto le storie che lei raccontava, e spesso l’accompagnava a passeggiare nella campagna. Lei raccoglieva fiori, le piacevano i papaveri, ed era amica degli insetti. Erano i fiori, e pure gli insetti, a raccontarle le storie che lei ripeteva a Malachia. Storie delle piccole cose, che avvenivano senza essere viste, né uomini né dèi conoscevano la vita del campo. Loro due invece sapevano. Fanìa diceva che a volte, quando si comportavano in maniera insolita, gli animali portavano i messaggi degli dèi.
Qualche mese prima Fanìa aveva cominciato a intristirsi. Si era rabbuiata e si poneva strane domande, e non trovando in sé le risposte, così pareva a Malachia, poneva domande a ciò che la circondava. Al vento che faceva danzare il grano con i papaveri, alle foglie dei melograni, ai fiori appassiti, alle lucertole che scappavano lasciandosi dietro la coda a contorcersi, ai resti del topo mezzo mangiato dal gatto, al grande noce colpito dal fulmine. Niente pareva darle una risposta che la facesse tornare serena.
Era diventata sempre più triste, fino al giorno in cui tutti si erano radunati a casa sua, le donne dentro e gli uomini fuori. Da allora Fanìa non si era mai più vista e sua madre Sabedda era improvvisamente diventata muta.
Malachia aveva chiesto più volte della cugina a diverse persone, ma la risposta era sempre rimasta vaga e misteriosa: «Sta con la Signora, è tutto a posto.»
Questa frase gli dava molto da pensare, come lo stato penoso in cui versava Sabedda, che assieme alla voce sembrava avesse perso anche il senno.
Malachia cominciò a leggere tutto quello che trovava sulle tradizioni e le leggende dell’isola. Spesso si portava i libri sul vulcano e stava lì a leggere, sperando d’incontrare nuovamente e magari più da vicino l’uomo col gessato.
Ma non lo vide più, per molto tempo almeno.